Il dopoguerra ha visto le pagine della saggistica a farla da padrona per sviscerare e raccontare la storia del regime e gli effetti nefasti della guerra. Solo alcuni grandi nomi della letteratura italiana (Fenoglio, Pratolini, Vittorini, Cassola...) hanno offerto una sponda al campo della narrativa per essere elemento di comunicazione.
Come se la quotidianità di quel tempo e ferite mai del tutto rimarginate cercassero rifugio in una sorta di oblio razionale. In questi ultimi decenni ha trovato però un suo spazio meglio definito una compatta schiera di scrittori che hanno cercato di ricostruire atmosfere ed eventi storici collegati al periodo in questione trasformandolo in una sorta di palcoscenico su cui far muovere trame e personaggi di pura invenzione.
Merito dei cosiddetti giallisti, capaci di spulciare il crimine negli anni del Ventennio quando gli Italiani vivevano la vita quotidiana in piena sicurezza. Libro e moschetto fascista perfetto. Si diceva ai tempi del Duce. Però l’importante era che il libro in questione non rientrasse nel genere giallo. E se, vagheggiando in un mondo fantastico, qualche morto ammazzato era proprio indispensabile per dare un’emozione diversa al lettore, il colpevole dell’omicidio doveva essere rigorosamente straniero. Tutto questo in nome di regole e proibizioni ferree volute dal regime: nessun italiano si poteva macchiare di un crimine. Un volo con la fantasia era ammesso, ma non al punto da far supporre l’esistenza di una realtà dove l’illegalità potesse avere il sopravvento. Gli italiani erano brava gente e il regime di Mussolini, grazie anche alla sua opera educativa, era capace di mantenere ordine e disciplina.
Anche a costo di consumare qualche manganello sulla schiena dei più duri di comprendonio. Quindi meglio un po’ di retorica scritta in bella prosa, e diffusa a piene mani, con suggestive storie d’amore e d’avventura, dove far primeggiare eteree fanciulle pronte a cadere tra le braccia di un uomo forte, coraggioso e onesto. Ma nonostante queste premesse, occorre dire che è datata proprio nel ventennio la nascita del termine giallo grazie alla ormai nota collana dei romanzi editi da Mondadori. Nel 1931, su precisa disposizione del governo fascista, tutti gli editori vennero obbligati a pubblicare almeno il 15% di opere a firma di italiani, e qualche autore di casa nostra incominciò a fare capolino con case editrici come Sonzogno, Nerbini, Minerva scrivendo di enigmi dalle ambientazioni fragili, intrecci macchinosi, veleni e pugnali, il tutto in atmosfere che nulla avevano da condividere con la realtà quotidiana. La collana di Mondatori sarà destinata poi a soccombere alle accuse di diseducatività scagliate dal potere fascista e verrà sospesa nel 1941 con la pubblicazione del numero 266 (che, per ironia della sorte, portava proprio una firma italiana, quella di Ezio D’Errico, con il romanzo La casa inabitabile).
Gli enigmi in camicia nera raccolti nell’antologia altro non sono che lo specchio di una narrativa con profonde radici tutte italiane anche se per troppo tempo misconosciute e considerata di serie B rispetto alla cosiddetta letteratura alta.
Rappresentano una voglia di raccontare e di mantenere viva la memoria di un’epoca e dei suoi fattori umani, di crescere e storicizzarsi partendo da brandelli veritieri di storia del Ventennio dove indagini, atmosfere, misteri e trame nulla hanno di irreale, tanto da fare di questa compagine letteraria i più autentici discepoli di maestri del calibro di Augusto de Angelis, Alessandro Varaldo, Carlo Emilio Gadda.
Daniele Cambiaso e Angelo Marenzana (a cura di)
ENIGMI IN CAMICIA NERA Tredici racconti
Edizioni La Torre dei Venti
[ISBN-979-12-80053-19-0]
Pag. 272 - € 14,00